Non voglio scappare

Non voglio scappare

Storie di vita nella scuola italiana

Scuola media, classe 3G, ore 9.30, lezione di letteratura italiana. Lo studente che ho davanti evidentemente non ha studiato. Dopo molte mie domande e sue assurde risposte, un altro alza la mano, prova a rispondere -sbagliando- e non azzecca neppure la coniugazione del verbo! A questo punto dico: “Se non sapessi che avete studiato a lungo i verbi in prima media con il professor Rossetti, non ci crederei!”. “è vero”, aggiunge Lucia, dal fondo della classe. “Sì, ve lo ricordate mister Rossetti?”, segue Marco, il clown del gruppo. E Lucia: “è scappato!”. E Marco: “L’abbiamo fatto sclerare”. Ho continuato a pensare per tutto il giorno a quelle parole “è scappato”

So che i ragazzi nutrivano un certo affetto per il collega Rossetti, che ha insegnato lettere per un solo anno in questa scuola, e anche oggi hanno detto quelle parole con sincerità e senza toni negativi verso il collega. So anche che il collega non è scappato dalla scuola, ha solo cercato una situazione migliore, ragazzi che studiano di più, meno assistenti sociali da contattare, meno stranieri, meno rom, meno problemi. “Non voglio scappare”, ho pensato. Tra questi ragazzi trovo il senso di restare.

È l’attesa sperando i frutti che forse non vedrò. Expentans expectavi, come è scritto sulla croce della chiesa di Villa Mercede, a Roma, casa precedente delle Ausiliatrici nella capitale. Stare, aspettare, accompagnare. Questi ragazzi vivono in un quartiere popolare, la maggior parte delle famiglie ha poca cultura e non dà valore allo studio, i problemi sono tanti. Studiano poco. Propongo contenuti, ma cosa resterò loro? Forse che non sono scappata, che arrivo puntuale, che “la prof è onesta”, “la prof ama la verità”… sono frasi sentite da Samantha, Roberto, Ambra, in vari momenti, durante le ore di lezione. Stare, aspettare, accompagnare qualcuno che ha meno di altri. Qui trovo qualcosa del carisma di Maria della Provvidenza, oltre ad accompagnare, stare ed aspettare risuonano in me.

Alle ore 13, in quello stesso giorno, classe 2G, questa volta mi fermo davanti a Paolo. Io e una collega cerchiamo di farlo ragionare: nell’intervallo si è fatto dare la merenda da un ragazzo di prima media. Per lui era uno scerzo, per il ragazzo non è stato così. Dopo 20 minuti Paolo non capisce che questo è bullismo. Guarda me e la collega con uno sguardo torvo. Abbiamo perso tempo? Con lui e con altri? Anche questo per me è restare, con fatica, lo sento, ma non posso scappare.